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Vinitaly a basso tasso alcolico. I dealcolati fanno discutere ed è ora di pensarci seriamente in Italia

Vino

Il Vinitaly 2024 è stata proclamata un’edizione di successo. Rilevate 97.000 presenze, 300.000 operatori interessati sono giunti dall’estero, 4300 gli espositori, ben oltre le aspettative. Questi solo alcuni dei numeri che hanno caratterizzato la kermesse veronese rinnovata per il 56esimo anno. A tenere banco tante discussioni, ma su tutte c’è quella sui dealcolati. Un’opportunità da cogliere o da lasciar cadere nel vuoto? Gli addetti ai lavori, in diversi momenti della manifestazione, si sono interrogati sui prossimi passi reali da compiere in accordo con le istituzioni. Ma dopo quasi un mese dalla fine della manifestazione come ci si muove?

Un'opportunità

“I vini dealcolati sono un’opportunità di mercato che le cantine intendono intercettare: chiediamo una disciplina fiscale ad hoc nel Testo Unico delle accise”. Lo ha detto il presidente di Unione Italiana Vini, Lamberto Frescobaldi, nel corso dell’incontro su Riforma fiscale e il settore vitivinicolo. Questa è la premessa che dà voce a quei produttori attenti alle novità, su tutte quelle a basso tasso alcolico. I dealcolati infatti, hanno circa un milione di wine lovers italiani interessati all’argomento, sulla scia di altri paesi che sembrano essere avanti nella produzione e commercializzazione. Infatti già gli USA registrano questo come un business che genera già un miliardi di dollari, quindi non si può lasciar correre e pensare sempre e solo alla tradizione così come la conosciamo.

In un mondo che cambia velocemente e segue sempre nuove tendenze, mondo del vino compreso, è necessario darsi da fare e infatti, tra i padiglioni della fiera, non sono mancati i precursori italiani a proporre le prime etichette di bevande dealcolate per intercettare i curiosi. Si chiamano bevande perché, di fatto, vini dealcolati non si possono ancora produrre negli stabilimenti italiani, ma non solo. Non sono state fornite indicazioni agli operatori sul regime fiscale. Quindi per chi vuole cimentarsi in questa impresa non resta che interpellare stabilimenti in paesi esteri in grado di “dealcolizzare” il mosto e riportarlo in Italia. È un procedimento legale che comunque costa alle cantine e non tutti possono permetterselo, restando fuori da questo mercato in crescita.

Una delega fiscale per arrivare in Italia

A sottolineare la situazione è il ministro Maurizio Leo. Stando alla bozza del decreto del Masaf, il processo di dealcolazione è autorizzato esclusivamente presso stabilimenti dotati di licenza di deposito fiscale per la produzione di alcol, che oggi le cantine non hanno. Per questo ci sarebbe bisogno di un cambiamento di rotta con una delega fiscale, necessaria – secondo il presidente UIV Frescobaldi – per introdurre una semplificazione amministrativa nell’ambito della delega fiscale del governo.

Questi prodotti consistono in un’alternativa di consumo e interessano più categorie di consumatori, tra cui i bevitori del domani che non sono già grandi fan delle bevande alcoliche e che, fortunatamente, non si sentono di voler correre maggiori rischi legati alla social reputation e a farsi beccare con un tasso alcolico elevato alla guida. Secondo Swg, la quota di attenzione verso i vini dealcolati (21%) è più alta nelle fasce più giovani (28% da 18 a 34 anni) e il target a maggior contrazione dei consumi di vino che nel 79% dei casi dichiara importante e fondamentale poter ridurre i problemi legati all'abuso di alcol mettendo a disposizione dei consumatori prodotti a zero o bassa gradazione. Il no alcol quindi, potrebbe essere catalogato come vino della GenZ. A confermarlo è Marzia Varvaglione, presidente AGIVI e già produttrice che, nel 2024, ha portato sul mercato ben due bevande dealcolate. “La generazione Z sta dimostrando grande attenzione verso una tipologia in grado di rispondere a un pubblico sober curious sempre più numeroso, negli Stati Uniti e nel mondo. L’Italia deve essere in grado di capire prima di tutto sul piano culturale che un prodotto non sostituisce l’altro e insistere su una sperimentazione che può riservare risultati molto interessanti”.

L’onda cosiddetta salutista delle giovani generazioni, oltre che dalla forte competizione di nuove bevande low alcohol e da una questione demografica che vede la popolazione di bianchi diminuire in favore di altre etnie culturalmente meno orientati ai consumi tradizionali di vino. “I vini low alcohol – si rileva dall’Osservatorio Uiv-Vinitaly – negli ultimi anni sono stati protagonisti di una cavalcata che li ha portati a essere una scelta non più secondaria nell’evoluzione del gusto degli americani, e oggi valgono circa 1 miliardo di dollari. A ciò si aggiungeranno sempre più altre tipologie attente alla propria dieta per un target prevalentemente giovane: i vini low sugar, per esempio, hanno registrato crescite astronomiche nel giro di un quinquennio: da 10 milioni di dollari del 2019 ai 270 dell’anno appena chiuso”.

Cavalcare il trend oppure no

Ma i vini no alcol all’assaggio piacciono? Gli addetti ai lavori dicono di no e per un prodotto che la sua tradizione se la sta costruendo, certamente c’è ancora tanta strada da fare. Una condizione che spinge i produttori a cimentarsi e a farlo con cognizione di causa, cercando nelle loro bevande di non sacrificare il sapore del vino così come lo si conosce.

La moda no alcohol non si mangerà il vino di una volta ovvio, ma il business non può essere ignorato poiché vale già 62 milioni di dollari ed è cresciuto di sette volte negli ultimi quattro anni. Le vendite di vini senza alcol provenienti dall’Italia hanno sovraperformato nel 2023 sia a volume con il +33%, sia a valore con il+39% rilevato. Il prezzo medio di un alcohol-free wine è leggermente superiore a quello di un vino tradizionale: 12.46 dollari al litro contro 11.96 nel 2023.

Siamo a maggio e la discussione sui dealcolati sembra ancora ferma. Cosa sta seguendo alle buone intenzioni oltre lo scetticismo e una punta di ironia che non sempre basta? Lo scopriremo nei prossimi mesi, forse.